Da intervista al Card. Vallini, vicario della diocesi di Roma
Papa Francesco dal conclave è uscito sentendosi già pienamente vescovo di Roma, e ha voluto proprio lei al suo fianco quando si è presentato ai fedeli dalla Loggia della Benedizione. Che cosa è accaduto?
Il conclave è opera di Dio ed è stato un miracolo.
Ne sono ancor più convinto dopo aver vissuto per la prima volta questa esperienza di grazia. Si crea un’atmosfera che rende questo momento unico e diverso da ogni altra vicenda umana. Si entra in conclave con la coscienza di una grande responsabilità, che è quella di contribuire a un’opera di discernimento, grande e complessa, per capire e chiedere al Signore l’ispirazione. E poi si prega, si prega tanto. Io per esempio, il giorno dell’elezione, tra una votazione e l’altra ho recitato tre volte il rosario.
In Sistina non si parla né si tratta, si prega. Del resto a questo momento si arriva dopo giorni di riflessioni — otto questa volta — e il tema non è il Papa ma la Chiesa, con tutte le sue realtà, belle o meno belle che siano. E si tratta di una visione della Chiesa universale. In modo quasi speculare si cerca di capire chi potrebbe guidarla in quel preciso momento storico. Il clima spirituale nel quale si è svolto questo conclave è stato segnato da momenti molto particolari, dopo la rinuncia di Benedetto XVI.
Dunque c’era bisogno dell’assistenza dello Spirito Santo.
E a me pare che il Signore si sia manifestato. Anche attraverso l’entusiasmo dell’accoglienza popolare riservata al nuovo Pontefice: in questo senso, il sensus fidei che viene dal popolo è stata una conferma.
Cosa ha reso più visibile l’opera di Dio nell’elezione di Papa Francesco?
Rispondere a questa domanda implica alcune riflessioni profonde.
Innanzitutto c’era da raccogliere un’eredità preziosa e ricchissima come quella di Benedetto XVI, con il peso delle motivazioni che hanno accompagnato la sua rinuncia.
Quell’11 febbraio rimanemmo tutti sgomenti. Sconcerto e incredulità erano evidenti sui volti di ciascuno di noi. Si formarono immediatamente capannelli nei quali ci si chiedeva cosa mai fosse successo.
Poi a poco a poco si diffuse quel sentimento di fede che ci accomuna, alimentata soprattutto dalla stima e dalla devozione che accompagnava e accompagna la relazione di ciascuno di noi con Benedetto XVI; se ha fatto questo, ci dicevamo, vuol dire che ha ritenuto di dover fare qualcosa di importante per la Chiesa. Quindi la rilettura di quella dichiarazione, la riflessione sul suo magistero, così ricco e forte, non poteva che far riflettere su chi sarebbe stato in grado di proseguire su questa linea e magari darle nuovo e maggiore vigore. Ed è così cominciato lo scambio di opinioni tra i cardinali. Poi nella Cappella Sistina è maturato l’ampio consenso verso Jorge Mario Bergoglio
Quando il Papa l’ha chiamata?
Dopo l’elezione i cardinali sfilano davanti all’eletto per manifestargli obbedienza. In quel momento mi ha detto: «Lei è il cardinale vicario: accetta di starmi vicino?». Naturalmente gli ho risposto subito di sì. E pensavo fosse finita lì. Poi mi ha fatto chiamare di nuovo e mi ha detto: «Venga, stia vicino a me.
In poco più di mezzo secolo siamo passati dall’ultimo Papa romano al primo che viene dal nuovo mondo, fuori dal bacino mediterraneo. Quale la loro attenzione dei Pontefici alla diocesi di Roma?
L’emergere della coscienza diocesana del pontificato a Roma la si deve inizialmente a Giovanni XXIII, che trasferì a San Giovanni il Vicariato.
Paolo VI accentuò questa coscienza non solo con la riforma del Vicariato stesso ma anche andando a celebrare nelle periferie, visitando parrocchie e comunità cittadine. E poi Giovanni Paolo II ha visitato quasi tutte le parrocchie. Ma non solo: ha avviato e portato a compimento la prima missione cittadina, in preparazione all’anno giubilare, e ha celebrato il Sinodo diocesano, del quale è rimasta come gemma sintetica una frase: «Chiesa di Roma, trova te stessa fuori di te stessa; parrocchia, trova te stessa fuori di te stessa». E Benedetto XVI ha proseguito su questa linea.
Come sarà il rapporto tra Papa Francesco e i romani?
Che il Pontefice si senta innanzitutto vescovo di Roma lo ha più volte detto e dimostrato. Per quanto riguarda i romani voglio raccontare un episodio recente. Il 23 marzo ero nella parrocchia del Santissimo Sacramento a Tor de’ Schiavi, sulla via Prenestina.
Alla fine della messa tanta gente mi ha raggiunto in sacrestia. Sono rimasto sorpreso dalla forza della loro richiesta: «Ci porti il Papa!». Ho cercato di far capire che era ancora presto. Di fronte alla loro insistenza ho chiesto perché e mi hanno risposto: «Non sappiamo, ma lo vogliamo tra noi. È un bisogno che sentiamo nel cuore». Ecco questa è la dimensione del rapporto che si è creato con il Papa.
Ero in macchina con lui proprio mentre si recava a Casal del Marmo. Già appena fuori Porta Sant’Anna c’era una folla straordinaria ad attenderlo. Poi lungo tutto il tragitto due file di folla hanno fatto ala al passaggio dell’auto. Tutta la via Trionfale era invasa da gente che applaudiva e voleva vedere il Papa, tanto che abbiamo dovuto tenere i finestrini sempre abbassati. E lui continuava a ripetere: «Incredibile, incredibile». Non c’è bisogno di tanti commenti: Roma già lo ama
Il ministero papale ha le sue radici nella figura di san Pietro: a chi, come lui, è vescovo di Roma è chiesto di «pascere il gregge il Cristo» una forte spinta al nostro impegno pastorale per la città. Oggi, come diceva Giovanni Paolo II, non è più tempo di conservazione dell’esistente ma è tempo di missione. La grande sfida è quella della fede.
Non è più possibile presupporla.
Ogni generazione ha necessità di una riproposizione della fede. Oggi in una città come Roma, che non ha più un suo centro unificante, gli unici poli di aggregazione sono le parrocchie. E io mi sento di testimoniare il grande lavoro che vi viene svolto.
Papa Francesco ha raccomandato ai sacerdoti di uscire da se stessi e di andare nelle periferie, intendendo con queste le sofferenze degli ultimi, le povertà. I preti romani sono preparati?
Posso assicurare che tutti i sacerdoti che lavorano nelle parrocchie della diocesi sono pronti a fare un ulteriore sforzo di riflessione per cercare strade nuove e soprattutto un nuovo linguaggio per arrivare sino ai cosiddetti nativi digitali. Per quanto riguarda le periferie, poi, credo di poter testimoniare una delle più grandi gioie della Chiesa di Roma, cioè la sensibilità caritativa.
Il Papa invita a uscire: i preti romani già lo fanno perché vanno incontro ai poveri, agli emarginati. Almeno dai tempi di don Di Liegro a Roma questa coscienza è forte. Qui ho scoperto la grande forza della Caritas, non solo quella diocesana con i suoi grandi progetti, ma direi proprio la forza della carità. Ed è un’attività della quale si fidano sia le istituzioni pubbliche sia i cittadini privati. Un piccolo segno di questa fiducia è nella scelta di destinare proprio alla Caritas diocesana le monetine che vengono lanciate da chi viene a Roma nella Fontana di Trevi. Le parole d’incoraggiamento del nostro vescovo dunque trovano sostegno nella risposta dei sacerdoti della sua diocesi. Insomma, ci siamo. E nel prossimo settembre Papa Francesco incontrerà i suoi preti all’inizio del nuovo anno diocesano
Il Vescovo di Roma e il suo primato su tutta la Chiesa
Al vescovo della Chiesa di Roma si riconosce, giustamente, il titolo di «vicario di Pietro» perchè è inserito successione a Pietro, l’Apostolo.
Definendo il Vescovo di Roma come «vicario di Pietro», si pone subito in risalto la ragione del suo primato su tutta la Chiesa, proprio perchè è il successore di Pietro, colui che Gesù scelse come «Pietra» su cui viene edificata la sua Chiesa ( Mt 16 ,18 ) e come pastore al quale è assegnata la missione di pascere il suo gregge ( Gv 21, 15 -17 ).
Cristo affida il carisma del primato a Pietro, il «primo» degli Apostoli ( Mt 10,2 ) e, di conseguenza, a chi è vescovo di Roma, la stessa sede di Pietro.
«L’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli » e «destinato a essere trasmesso ai suoi successori », «permane nel vescovo della Chiesa di Roma», e come tale, «capo del collegio dei vescovi, vicario di Cristo, Pastore qui in terra della Chiesa universale». (cfr canone 331 del Codice di Diritto Canonico)
Alla Chiesa di Roma, quale Chiesa di Pietro e dei suoi successori, si riconosce un carattere «primaziale» già da Ignazio di Antiochia (†107), il quale afferma che la Chiesa stabilita «nella regione dei Romani» ha una sua «presidenza». Precisamente: «presiede alla carità ( agape) ».
La deferenza e l’elogio di Ignazio per la Chiesa di Roma sono ampi e ripetuti. Egli scrive che essa «è degna di Dio, degna di onore, degna di essere chiamata beata, degna di lode, degna di successo, degna di purezza»; e dopo d’aver detto che «presiede alla carità», continua: essa «porta la legge di Cristo, porta il nome del Padre» ( Lettera ai Romani, Saluto).
S. Ireneo di Lione (†202), a sua volta, dichiarerà che ciò che la Chiesa di Roma è per la carità, lo è anche per la fede. «Con questa Chiesa, in ragione della sua origine più eccellente, deve necessariamente essere d’accordo ogni Chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte – essa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la Tradizione che viene dagli Apostoli» ( Adversus Haereses, III, 1-2).
Chi è vescovo della Chiesa di Roma, è perciò stesso Papa, senza possibilità di disgiunzione.